13 maggio 2010

13 MAGGIO 2010
ASCENSIONE DEL SIGNORE DIO E SALVATORE NOSTRO GESU’ CRISTO

“Credo (…) che per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso (dal cielo), si è incarnato, si è fatto uomo, ha patito, è risuscitato il terzo giorno, è salito nei cieli, verrà a giudicare i vivi e i morti”.
Queste sono le parole che fissarono i 318 Padri convenuti al Concilio Niceno I il 19 giugno 325 nel Simbolo della nostra fede, per scandire i momenti essenziali dell’economia della salvezza operata dal Figlio di Dio.
“Il Signore nostro Gesù Cristo”, scriveva Macario Crisocefalo, “patendo, morendo ed essendo stato seppellito, ha riscattato dalla corruzione se stesso e quanto è soggetto ad essa, avendo trasformato il suo corpo in incorruttibilità ed avendo ripreso la sua anima con la potenza, perché era Dio, è risorto il terzo giorno. E rimano Dio con la carne e l’anima, indivisibile nei secoli, non passibile più nella carne. (…) Dopo la Resurrezione, infatti, non ha rifiutato alcuna delle nostre caratteristiche che aveva assunto: né il corpo, né l’anima, ma pur avendo acquisito un corpo circoscrivibile ed un’anima spirituale ed intellettiva, volitiva ed energetica, ritornò nei cieli, dove siede alla destra del Padre”.
Per ricordare degnamente questi misteri della fede, la Chiesa ha istituito delle festività, che dovrebbero suscitare nell’animo dei cristiani l’amore per il Salvatore.
La Chiesa di tradizione bizantina conta oggi dodici grandi feste.
Si tratta di feste del Signore (despòtiche) e della Madre di Dio (theomitòriche) fisse o mobili nella loro celebrazione.
L’attuale calendario liturgico delle Chiese di tradizione bizantina vede intersecarsi tre cicli liturgici diversi, intendiamo il ciclo settimanale scandito dagli otto toni, quello mensile con le commemorazioni fisse e, infine, quello pasquale, che costituisce il ciclo mobile vero e proprio.
Quest’ultimo è, a sua volta, distinto in due parti: periodo Quaresimale (triòdhion) e periodo della Resurrezione (pentikostàrion), che va dalla domenica di Pasqua alla domenica successiva alla Pentecoste: festa di tutti i santi.
Il periodo della Resurrezione sin dai primordi del cristianesimo è caratterizzato dalla gioia e dalla liberazione da ogni affanno materiale e spirituale: non ci si doveva sottoporre ad alcuna pratica di carattere penitenziale né ad alcuna preoccupazione temporale.
Era una forma di pregustazione del Regno dei cieli.
Tertulliano, infatti, ha lasciato scritto esplicitamente in due sue opere che, “come ci è stato tramandato”, da Pasqua a Pentecoste, non solo bisogna guardarsi dal compiere qualsiasi forma di ansietà e da ogni incombenza, differendo pure le occupazioni, per non dare spazio al diavolo”.
Il giovedì della sesta settimana dopo Pasqua, cioè il quarantesimo giorno dopo la Resurrrezione, si festeggia attualmente l’Ascensione del Signore. La celebrazione, come per tutte le grandi solennità, si avvale di un ottavario che si conclude il venerdì successivo.
Nei primi quattro o cinque secoli della Chiesa, tuttavia non era così; leggiamo, infatti, nel Diario di viaggio della pellegrina Egeria, databile agli anni ottanta del 300: “Nel quarantesimo giorno dopo Pasqua, che è giovedì, a cominciare dal giorno prima, vale a dire dal mercoledì dopo l’ora sesta, tutti vanno a Betlemme per celebrare la vigilia. Essa si svolge a Betlemme nella chiesa dove c’è la grotta in cui nacque il Signore. Il giorno dopo, giovedì, che è il quarantesimo giorno dopo Pasqua, l’ufficio si celebra nel modo abituale; sia i sacerdoti che il vescovo vi predicano, dicendo cose appropriate al giorno e al luogo. Dopo di che, la sera, tutti ritornano a Gerusalemme. Nel cinquantesimo giorno dopo Pasqua, che è domenica e che richiede dal popolo un faticoso impegno, si compiono tutte le cerimonie abituali, iniziando dal canto del primo gallo. La vigilia si fa all’Anàstasis, perché il vescovo legga quel passo del Vangelo che si legge sempre la domenica, concernente la Risurrezione del signore; poi nel medesimo luogo si svolgono gli uffici consueti, come durante tutto l’anno. Venuto il mattino, il popolo si riunisce nella chiesa maggiore, il Martyrium, e anche là si fa ogni cosa secondo la consuetudine: i sacerdoti predicano, dopo predica il vescovo; tutto avviene secondo la regola, si offre l’oblazione al modo solito, come è abitudine di domenica”. (…) Quindi, “tutto il popolo rientra alle proprie case, ciascuno si riposa un poco e, subito dopo aver mangiato, sale al Monte degli Ulivi, cioè l’Eleona, come può, tanto che nessun cristiano rimane in città e manca di andare. Non appena dunque si giunge sul Monte degli ulivi, ossia l’Eleona, si va innanzi tutto all’Imbonon, il luogo da cui il Signore ascese al cielo. Quivi il vescovo, i sacerdoti e tutto il popolo siedono, si fanno le letture, si alternano inni e si dicono antifone adatte al giorno e al luogo; anche le preghiere alternate hanno sempre un riferimento conveniente al luogo e al giorno. Si legge pure quel passo del Vangelo che racconta l’Ascensione del Signore, si legge ancora il passo degli Atti degli apostoli dove si parla dell’Ascensione al cielo del Signore, dopo la sua Resurrezione. Quando si è compiuto ciò, si benedicono i catecumeni, poi i fedeli, e circa all’ora nona si discende di là e al canto di inni si giunge a quell’altra chiesa, che sorge pure sull’Eleona, nella quale vi è la grotta dove il Signore sedeva per istruire gli Apostoli”.
Dal testo della pellegrina Egeria è possibile ricavare essenzialmente che l’Ascensione costituiva un’unica festa con la Pentecoste, venendo celebrata nel pomeriggio dello stesso giorno. Per quanto riguarda, infatti, la celebrazione del quarantesimo giorno, nulla sembra alludere all’
Ascensione, mentre l’Allusione è esplicita nel giorno di Pentecoste.
Una testimonianza esplicita di tale prassi è possibile rinvenirla nella XIV catechesi di san Cirillo di Gerusalemme, pronunciata nel 348, dove tra l’altro si dice: “La serie ordinata dell’insegnamento della verità mi invita a parlare dell’Ascensione; ma la grazia di Dio ha disposto che tu ne abbia udito parlare più che a sufficienza, data la nostra debolezza, nella giornata di ieri, domenica. Per una disposizione della grazia divina la successione delle letture fatte nella Sinassi comportava che si trattasse quello che riguarda l’Ascensione al cielo del nostro Salvatore. L’argomento fu trattato per tutti quanti e per la moltitudine dei fedeli radunati, ma soprattutto per te. Sai che la serie ordinata delle verità della fede ti insegna a credere in colui che è risorto il terzo giorno, salì al cielo e siede alla destra del Padre”.
La festa dell’Ascensione cominciò ad avere una fisionomia propria nelle varie Chiese tra il quinto ed il sesto secolo. Il fatto che ne parli Eusebio nei primi decenni del 300 come “giorno solenne”; Cirillo di Gerusalemme, come abbiamo visto; che Gregorio Nisseno (+395) abbia scritto due omelie su questa festa, che certamente esercitarono un grande influsso per la sua diffusione; che Giovanni Crisostomo (+407) la definisca festa antica ed universale, e che Agostino (+430) dica che fosse celebrata nel mondo intero essendo di origine apostolica, non deve trarre in inganno relativamente al tempo della celebrazione a sé stante; tali fonti, infatti, devono essere lette come riferite ad un’unica festa Ascensione-Pentecoste al cinquantesimo giorno.

(Tratto da Gaetano Passarelli, L’Icona dell’Ascensione, La Casa di Matriona, Milano 1993)

PRIMA ANTIFONA

Pànda ta èthni, krotìsate chìras; alalàxate to Theò imòn en fonì agalliàseos.

SECONDA ANTIFONA

Mègas Kìrios, ke enetòs sfòdhra en pòli tu Theù imòn, en òri aghìo aftù.

Sòson imàs, Iiè Theù, o en dhòxi analifthìs af’imòn is tus uranùs, psàllondàs si: Allilùia.

TERZA ANTIFONA

Akùsate tàfta, pànda ta èthni; enotìsasthe, pàndes ikatikùndes tin ikumènin.

Anelìfthis en dhòxi, Christè o Theòs imòn, charopiìsas tus mathitàs ti epanghelìa tu Aghìu Pnèvmatos, veveothèndon aftòn dhià tis evloghìas, òti si i o Iiòs tu Theù, o Litrotìs tu kòsmu.

ISODHIKON

Anèvi o Theòs en alalagmò, Kìrios en fonì sàlpingos.

Sòson imàs, Iiè Theù, o en dhòxi analifthìs af’imòn is tus uranùs, psàllondàs si: Allilùia.

TROPARI

Anelìfthis en dhòxi…

Tin ipèr imòn pliròsas ikonomìan, ke ta epì ghis enòsas tis uranìis, anelìfthis en dhòxi, Christè o Theòs imòn, udhamòthen chorizòmenos, allà menòn adhiàstatos, ke voòn tis agapòsi se; egò imì meth’imòn, ke udhìs kath’imòn.

EPISTOLA (Atti 1,1-12)

Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo. Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre “quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni”. Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”. Ma egli rispose: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino agli estremi confini della terra”. Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme, quanto il cammino permesso in un sabato.

VANGELO (Lc. 24,36-53)

In quel tempo, mentre gli Apostoli parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho”. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: “Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”. Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio. Amìn.

MEGALINARIO

Se tin ipèr nun ke lògon mitèra Theù tin en chròno ton àchronon afràstos kiìsasan i pìsti omofrònos megalìnomen.

KINONIKON

Anèvi o Theòs en alalagmò, Kìrios en fonì sàlpingos. Allilùia.

Al posto di “Idhomen to fòs…” e “Ii to ònoma…” si canta:

Anelìfthis en dhòxi…

OPISTHAMVONOS

Ìpsoson imòn, Dhèspota, pros uranòn ta fronìmata ton proskinùndon su to kràtos, ke ton nun imòn apò ton ghiìnon frondìdhon èlkison pros eaftòn, o tin tapinothìsan fìsin imòn en eaftò ipsòsas, ke sìnthronon to ipsìsto piìsas Patrì. Ke kataxìoson imàs epì ghis os en uranò politèfsasthe ta àno zitùndas, òpu i en dhexià tu Theù kathìmenos, ke prosdhokòndas su tin èndhoxon ke foveràn parusìan, is ton tròpon dhi’Anghèlon egnòrisas tis theatès tis is tus uranùs anòdhu su makarìis Apostòlis. Ke sinkatarìthmison imàs tis en tes nefèles arpazomènis is apandisìn su erchomènu krìne tin ikumènin en dhikeosìni, ìna sin aftìs eonìos agalliasòmetha, tis sis terpnòtitos apolàvondes; ti evdhòkia ke filanthropìa tu anàrchu su Patròs, sin to panaghìo ke agathò ke to zoopiò su Pnèvmati, nin ke aì, ke is tus eònas ton eònon.

APOLISIS

O en dhòxi analifthìs af’imòn is tus uranùs, ke en dhexià kathìsas tu Theù ke Patròs…

Commento al Vangelo:
In questa scena soltanto Gesù agisce e parla: saluta, domanda, rimprovera, mostra le mani e i piedi e, perfino, mangia davanti ai suoi discepoli. Non si dice se hanno toccato Gesù e neppure, almeno esplicitamente, se hanno creduto. Di loro, però, sono descritti i sentimenti interiori: lo sconcerto e la paura, il turbamento e il dubbio, lo stupore e l’incredulità, la gioia.
Raccontando questo episodio Luca ha certamente un’intenzione apologetica (elogio in difesa di una persona o di una dottrina). Gesù offre via via prove sempre più convincenti in una sorta di itinerario progressivo che proprio qui si conclude: il sepolcro vuoto, l’apparizione degli angeli alle donne, l’incontro con i due discepoli di Emmaus, l’apparizione a Pietro e, infine, a tutti gli undici riuniti. Qui Gesù mostra le mani e i piedi, si fa vedere come una persona in carne e ossa, mangia una porzione di pesce. Gesù è veramente risorto! La sua persona è reale e concreta, non un fantasma evanescente.
Il Risorto “dischiude loro la mente per comprendere le Scritture”. Senza l’intelligenza delle Scritture il discepolo può trovarsi accanto al Signore senza riconoscere chi Egli sia. Gli eventi rinchiusi nella divina necessità non sono due ma tre: la passione, la risurrezione, la predicazione a tutte le genti. Anche la missione è inclusa nella divina necessità, non è ai margini dell’evento cristologico, ma ne fa parte. Destinatari dell’annuncio sono “tutte le genti”, dunque l’universalità più ampia possibile. E l’annuncio deve avvenire “nel suo nome”, cioè, deve poggiare sulla sua autorità, non su altro. Contenuto dell’annuncio è la conversione e il perdono. La conversione è in primo luogo la conversione della mente, una conversione teologica: il Crocifisso è rivelazione di Dio, non sconfitta. Annunciare il perdono dei peccati è proclamare che l’amore di Dio è più grande del nostro peccato. Annunciare la Croce significa annunciare un Dio che perdona. L’Ascensione conclude la storia evangelica ma nello stesso modo apre la storia della Chiesa. Per Luca l’Ascensione ha un duplice significato:
a) È un salire al Padre (“veniva portato verso il cielo”), precisando in tal modo che la risurrezione di Gesù non è un ritorno alla vita di prima, quasi un passo all’indietro, ma l’entrata in una condizione nuova, un passo in avanti, nella gloria di Dio.
b) L’Ascensione è però descritta come un distacco, una partenza (“si staccò da loro”): Gesù ritira la sua presenza visibile, sostituendola con una presenza nuova, invisibile e tuttavia più profonda: una presenza che si coglie nella fede, nell’intelligenza delle Scritture, nell’ascolto della Parola, nella frazione del pane e nella fraternità.

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